UNA LAPIDE ED UN CANTONALE DICONO …

Pagine di storia di San Marco in Lamis (Foggia)

 “Fa crescere nella verità
la tua Chiesa, o Padre”

       Lungo la vecchia “strada maestra” del mio paese, corrispondente al tronco orientale di Corso Matteotti (fig. 1), s’inseguono botteghe e negozi che offrono abbastanza varietà di mercanzia. Fanno da “civetta” alle singole attività commerciali ed ai luoghi di consumo insegne semplici e poco luminose, in materiali diversi. Nessun esercizio denunzia più vetusta età rispetto agli altri attraverso la struttura muraria esterna ed interna o attraverso scritte pubblicitarie in pietra, in bronzo, in ceramica.

   fig. 1fig. 1

Se non fosse per qualche volta a crociera, per alcuni  loggiati, per certi fabbricati che (pur se fortemente rimaneggiati) serbano le originali forme, si potrebbe pensare ad un centro urbano sorto da qualche secolo o poco più.

Qui da noi l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’”antico”. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i “mugnali”; si smontano “puteali”; si sotterrano  con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.

Manuela, bidella di quella Scuola Media sita nei pressi di piazza Oberdan, mi parlava sempre  d’una lapide poco leggibile incastonata all’interno della “Padula”, nel muro quasi opposto alla sua abitazione che era negli immediati pressi del grande pozzo occluso. Neanche lei ricordava la possibile fine di questa vetusta scritta riquadrata, fatta di parole indecifrabili. Per questo ultimamente ho pensato  di dare uno sguardo a quanto sapido d’antico resta ancora in paese lungo la Strada Maestra e nel hinterland, magari sepolto sotto la coltre dell’oblìo o dai cavi telefonici ed elettrici. Ne ho ricavato tessere utili per ricomporre il mosaico storico di San Marco in Lamis che, ancora oggi, presenta lacune.

Sulla  facciata  della  chiesa  intestata  a S. Antonio abate ad esempio, proprio all’estrema sinistra v’è  un “quadretto”[1] (fig. 2)  che facilmente sfugge alla vista degli  

   fig. 2fig. 2

osservatori  meno accorti. All’interno di questo vero e proprio documento lapideo non v’è incisa una data o una scritta, bensì emergono figure che si provvederà ad analizzare più appresso, dopo aver riportato qualche opportuna nota informativa circa questo luogo di fede che pare sia stato il più antico consacrato di San Marco in Lamis, la prima cappella cristiana “stramane”,  ossìa “extra moenia”, ossìa “fuori del nucleo  urbano  cintato” (fig. 3). Tanto però non esclude che  questo  sacellum  abbia

  fig. 3fig. 3

 

vissuto precedenti esperienze religiose legate al gentilesimo. Nel corso di uno dei tanti restauri innovativi (1975 circa) subìti dal consacrato vennero fuori dagli ambienti sotterranei cretaglia attribuibile al periodo tardoromano, avanzi di lucerne contrassegnate soprattutto da croci  doppie.

In base al documento olografo da poco  ricordato tra le note  (CAPPELLA DI SANTO ANTONIO ABATE E TORRE DEL CASTELLO …”), sul luogo dov’è ora la chiesa di S. Antonio abate già vi era una cappella  intestata  a S. Marco che restò “diruta” in seguito a “tretilizzo[2].  Scosse che toccarono particolarmente l’Apulia dall’XI al XV secolo, arco cronologico a cui fanno riferimento le informazioni riportate nel documento, si ebbero sia nel 1012 che nel 1087. Ma tant’altri terremoti si verificarono in questi quattro secoli. Fortissimo fu il sisma del 17 agosto 1361[3]. La ecclesia di S. Marco, ormai ridotta a rudere, più appresso verrà concessa dall’abate Ugo di San Giovanni de Lama a Giovanni di Pietro ed ai “sodales Mariae”[4]  che avevano avanzato richiesta per costruire un nuovo oratorio dedicato a S. Antonio abate. Era l’anno del Signore 1440. Da poco tempo il Capitolo dei Canonici ed Il culto di S. Marco erano passati alla chiesa dell’Annunciazione di Maria proprio “per l’angustia dei luoghi e per la ruina” di detta cappella.

Sarebbe bello sapere chi è stato a promuovere la  venerazione per l’evangelista Marco, ebreo di origine levitica[5] figlio di Maria di Gerusalemme e cugino di Barnaba, e chi volle una cappella a Lui intestata nei nostri luoghi. Per tentare d’arrivare ad una possibile verità è necessario percorrere, anche se a grandi passi, l’intero corridoio che va dal paganesimo al cristianesimo medievale. Resta da chiarire anche per quale Marco qui da noi fosse forte e viva la dulìa visto che nel giorno della sua festa la statua del Santo  Patrono indossa paramenti  vescovili e nel contempo gli viene posto accanto  il leone marciano, segno-simbolo dell’Evangelista omonimo (fig. 4). C’è da spiegare anche il “Sancto Marci.[6] che a volte ricorre in alcuni documenti medievali che riguardano la nostra Città.

 

   fig. 4fig. 4

 

E’  risaputo  che  sul  Gargano,  particolarmente  nei  luoghi a  noi cari, era radicato il culto di Giano[7], dyaus pitra o deus pater  che aveva  stazioni  di  culto sulle alture.

La cura del lucus[8] era affidata ai sacerdoti mentre la gestione era degli aristocratici in quanto ciascuna di queste aree sacrali  era anche sede di riunioni politiche[9].  Vi convenivano gli abitanti delle  tute[10], modesti centri insediativi sparsi sul territorio, occupati in gran parte da comunità legate tra loro da vincoli di parentela: erano gli Apuli, gli Ausi o Ausoni, gli Enotri, gli Etoli,  i Siculi, gli Umbri[11]. Si tratta di gruppi, più o meno numerosi, uniti tra loro da vincoli di consanguineità. Erano dediti soprattutto ad attività agro-silvi-pastorali, ma non disdegnavano l’avventura. L’incontenibile[12] crescita demografica ben presto consigliò loro l’occupazione di nuove terre feraci, non sempre prossime al luogo natìò. Questo annuale trasferimento definitivo di masse giovanili da un luogo ad un altro venne detto  Ver Sacrum. Coppie e singoli   (perché no?) seguivano il percorso calcato da una mucca, dalle corna infiorate. Completavano  la  teorìa vari animali da allevamento che la comunità migrante aveva ricevuto in dote dai congiunti rimasti nel luogo natìo. La nuova tuta veniva edificata là dove  il bovide  si soffermava almeno per tre giorni: tanto era indizio d’abbondanza di pascolo, di presenza d’acqua, d’assenza  di gente pronta a reclamare la proprietà del luogo.

E. Pais[13] sostiene che gli Umbri siano qui giunti dalle regioni danubiane[14] attraverso le Alpi mentre, a proposito di Apuli[15], Plinio ricorda tre originarie stirpi che formavamo questo popolo: i Grai o Liburni, seguaci di Teano; i Lucani[16], i Dauni. Poi, continuando, l’Autore della Storia Naturale[17], fa un confuso elenco di gentes[18] che in seguito popolarono la nostra regione. L’ordine alfabetico rende alquanto difficile l’identificazione  di tutte le comunità  un tempo residenti sul Gargano. Alcuni gruppi etnici erano allogeni che avevano affrontato  anche lunghi viaggi allo scopo di fondare nuove colonie per scopi commerciali;  altri pare fossero epigoni dell’antica stirpe italica che, su suggerimenti oracolari, facevano ritorno alla “terra dei padri”[19]. E’ possibile che le informazioni riportate da Plinio siano state ricavate dalle opere redatte da  scrittori[20] vissuti in diverse età.

E’ facile avanzare ipotesi ed assegnare un angolo sullo Sperone d’Italia ai “Matinates ex Gargano”, agli Apenestini, ai Merinates, ai Collatini, agli Alesini. Per avere un più completo quadro è opportuno far tesoro d’ogni informazione che può venire  dalle testi classici, dalle indagini sistematiche e  dalle risultanze delle ricerche.

Se il mito ha un significato storico, mi piace pensare a Tricca (modesta città garganica del passato ricordata anche da Plinio) come ad un centro abitativo ubicato nei pressi della grotta di S. Michele di Varano, sicuro asclepion[21] visto che serba un altarino su cui ricorrono in bassorilievo la rozza sagoma di un rettile  e la protome di Esculapio[22],  semidio nativo proprio di Tricca. Questa città, unitamente ad Apina, venne distrutta da Diomede (… urbes duas delevit …). Tra gli altri più consistenti ed antichi  nuclei urbani vengono ricordati  Elpie, Lampe[23], Iria, Uria, Gargara[24], Civita.

L’antro  di Varano non fu l’unica “casa di cura”  attiva nel lontano passato sul Gargano. Bastava un fonte o una pozza (polla) per classificare un lucus come inesauribile deposito di acque salutifere. Anche la presenza di un betilo o di un omphalos in uno spazio cintato conferiva “sacralità” alla cima di un monte fino a diventare residenza prediletta da parte di una divinità.

A considerare l’alto numero di santuari arcaici dei quali sul Gargano si conservano le tracce o il ricordo, si può affermare che  lo Sperone d’Italia fosse  nel lontano passato una sorta di “Terra Santa” con centri cerimoniali attorniati da  poche strutture capannicole. Vi si ricorreva o per impetrare guarigioni o per avere responsi  in merito a problemi personali.

Sul  Celano (e poi alle pendici) s’invocava Janus Agonius, dio d’ogni principio e d’ogni cosa. L’oronimo[25] è legato proprio a questa antica divinità italica. Alle falde di questo monte, sull’ultima propaggine è insellato da oltre un millennio il santuario-convento intestato all’evangelista Matteo. Un tempo quivi era l’antico tempio di Giano[26],  un ampio stanzone a due porte contrapposte. L’oracolo si palesava attraverso le Colombe, “che interpretavano il brusìo delle fronde” (F. Vian). In Età Romana, gli abitanti di Dodona[27] onoravano Giove in questo stesso luogo. Forse gli abitanti della nostra valle avevano optato per la venerazione di una triade.

Janus Patuleius, dio degli spazi aperti, aveva un centro cerimoniale[28] sulle Coppe Casarinelli. Dal fondovalle, antropizzato[29], si dipartiva una strada lastricata con grossi ciottoli  che s’inerpicava fino a raggiungere l’altura che sovrasta la strada provinciale denominata “Panoramica”.   Qui resiste ancora un ampio spazio cintato da spessa muraglia che racchiude ancora muri a secco disposti a labirinto ed un cumulo di massi, ordinato a tronco di piramide, che fa pensare a quei tumuli di pietre denominati specchia o cairn[30].  

L’enorme fallo  presente  nella Valle  di  Laurìa richiama Janus Consivius[31], impetrato per favorire la procreazione. Le donne, strofinando  il  proprio corpo contro il betilo, simulavano l’accoppiamento: credevano che questo rituale favorisse l’ingravidamento. Di lì a poco, sull’altura a tumulo, vi era il sacello di Calcante (fig. 5) . Si riceveva l’oracolo dopo aver sacrificato un montone nero e dormito sulla pelle della vittima.

    fig. 5fig. 5

Compagna e/o sposa  di Giano era Jana o Giana, dea legata “alla natura, alla sessualità, al parto”.  A Stignano v’era un  tempio tuscanico dedicato a questa divinità. Ne fanno fede  rocchi, basamenti e capitelli fino a qualche anno fa disseminati sul sagrato ed alcuni incisi che caratterizzano gli stipiti del portale maggiore della chiesa, parti riciclate della più antica struttura. Sul portale, però, sono leggibili anche molti altri teonimi, cosa che può sembrare alquanto strana. Ma è possibile che l’originale tempio  di Stignano sia l’evidente espressione del compromesso tra più gruppi etnici tentato in età romana con l’assimilazione di culti etruschi, celti, italici ed orientali. “Fu tale operazione, malriuscita, che favorì l’affermazione del Cristianesimo”.

Altre manifestazioni di religiosità antica sono state riscontrate a Manfredonia (grotta Scaloria); nei pressi dell’abbazia di Monte Sacro (un rudere che mostra due punti d’adito contrapposti): a Pulsano, a Monte S. Angelo (S. Salvatore, grotte sottostanti l’antro consacrato all’Arcangelo); a “Trinità” (tempio ed ara sull’altura alle spalle di Santa Maria di Stignano); a San Giovanni Rotondo (tempio di Jana o Estia o Vesta); a San Nicandro Garganico; a san Nazario; alle grotte di San Iorio o Giorgio al Calderoso[32], a Vieste.

L’azione di bonifica cristiana  sostituì  nel tempo Giano (“interpretato  nei  primi  momenti della nuova dottrina come “l’immagine profetica del Nazareno[33]) con Giovanni, profeta contemporaneo di Gesù, e con  Giovanni l’Evangelista. I tre hanno in comune  la radice indoeuropea dei loro nomi[34] e il culto  legato  ai  solstizi. In uno scritto di R. Guénon[35] si legge:  “Nel cristianesimo, le feste solstiziali di Giano sono diventate quelle  dei  due  san Giovanni, che si celebrano sempre alle medesime epoche, cioè in prossimità dei due solstizi  d’inverno e d’estate …”.

Stando al Sarnelli[36] fu Lorenzo Majorano a promuovere la venerazioni per Giovan-ni in quanto eresse un nuovo tempio intestato al Santo e diffuse sue immagini all’interno delle chiese garganiche già esistenti. Il culto per il  Pròdromos  (il Pre-cursore)  era molto sentito nella tradizione  liturgica  bizantina.  La Dèisis (fig.  6),

   FIG. 6fig. 6

una  delle più venerate  icone, è l’immagine emblematica delle credenze della Chiesa orientale primitiva: rappresenta Cristo come “il  re assiso sul trono di  gloria, che  ha  a  destra  la Regina vestita con un manto d’oro variopinto e a sinistra il Precursore … che gli prepara il cammino e che lo annuncia e lo indica come agnello di Dio”.    

Si può pensare che qui da noi il Precursore abbia preso il posto di Janus Agonius, mentre l’altro Giovanni, il discepolo prediletto di Gesù,  surclassò Janus Patuleius e Janus Consivius, se è vero quanto sostenuto da Seznec. Nel volume “La sopravvivenza degli dei[37] si legge: “… abbiamo qui un caso sorprendente (ed eccezionale) di conservazione dei tipi antichi,  sia in rapporto alla forma che al contenuto. Tuttavia, in seguito, alcuni cambiamenti vennero a modificare i caratteri primitivi …”. Difatti presso il santuario-convento “S. Matteo” è presente  nella nicchia sul secondo altare a destra la statua del Precursore. Pur se mi sembra superfluo, è opportuno ricordare che quest’antica badìa un tempo era detta “San Giovanni de Lama”.

All’interno della chiesa di  “S. Antonio abate” invece, sulla seconda arcata che pare delimiti dall’alto il presbiterio si legge il versetto dell’evangelista Giovanni “ET VERBUM CARO FACTUM EST ET HABITAVIT IN NOBIS”[38]. Un tempo  sul catino  di questa chiesa v’erano raffigurati gli Evangelisti (fig. 8).

fig. 7

Dicono  che ogni proposta artistica sacra ha sempre un filo, pur se tenue, annodato alle antiche credenze, alle tradizioni, alla storia del luogo. E’  questo uno dei motivi che da sempre mi hanno fatto pensare a “San Giovanni in Lamis” e a “San Giovanni de Lama” come a due realtà nettamente distinte tra loro quasi sino alla fine dell’XI secolo, come a due toponimi assegnati ad altrettanti luoghi di fede  estranei tra loro anche per diversità di scelta religiosa. Ma ora occorre proseguire nell’excursus per dare  una spiegazione anche a quest’ultima mia affermazione.

Nei primi anni del VI secolo cessa d’essere il vescovado di Carmeja o Carmejani che aveva quale allocazione Stignano. Tanto documenta  la scritta incisa sul basamento destro del portale principale di questa chiesa di campagna. Sempre più frequentata dai pellegrini, invece, era la residenza terrena dell’Angelo sul monte grazie all’impegno di  Lorenzo Majorano. Pare che molto oro sia stato rimesso da Bisanzio a questo Vescovo per rendere eccelsa la grotta e più praticabile la via per raggiungerla, nonché per la diffusione del culto non sempre  promossa con correttezza ed ortodossìa[39]. Ma il villaggio rurale circostante a questa soppressa sede vescovile,  tra l’altro anche antica stazione di sosta  lungo la faglia di Carbonara, non rimase disabitato. Inoltre tanta  gente continuò ad occupare le dimore da tempo sorte all’interno delle proprietà private.

Tra VI e VII secolo la Puglia intera fu invasa progressivamente dai Longobardi che non riuscirono però a consolidare in breve tempo la loro posizione sul nostro territorio a causa dei contrasti con le comunità indigene; delle continue incursioni slave[40] e, più appresso, della spedizione di Costante II. Quest’imperatore d’Oriente[41], sbarcato a Taranto, risalì l’intera Puglia e  tentò d’impadronirsi di Benevento. Tolse l’assedio quando venne a sapere che il re Grimoaldo stava per arrivare in difesa di questa città; concluse un accordo con Romualdo, duca di Benevento, e si allontanò per raggiungere dapprima Napoli e poi Roma ove fu ben accolto da papa Vitaliano.

Costante II verrà ucciso a Siracusa nel 668 dal ciambellano di corte. La sua morte favorì l’espansione di Romualdo in Puglia. Forse fu per impedire le facili incursioni da parte di predoni o per difendere le terre conquistate da nuove occupazioni che sorsero alcuni kastron come, ad esempio,  la “Padula” o “Patula” di San Marco in Lamis, protetta da mura costruite affrettatamente senza alcuna preoccupazione estetica.  Si tratta di uno stanziamento isolato formato da case inalveate intorno ad un’area comune dotata di più ipogei idraulici. Era possibile raggiungere la zona interna attraverso strette viuzze denominate “vucchele” o “vucchelicchye”, termini

di sicura origine longobarda[42]. Le vecchie abitazioni, nonostante le modifiche ed i rifacimenti,  ancora oggi serbano il carattere di altre realtà insediative longobarde: al basso o catodeo, deposito di prodotti e di attrezzi, segue una scalinata addossata alla parete la quale induce ad un breve ballatoio (mugnale) antistante il punto d’adito al piano superiore. Il sottoscala, quasi sempre recuperato ad ambiente  tramite opera di muratura, seppur di minima estensione  ospitava l’animale che quoti-dianamente s’accompagnava al contadino impegnato a coltivare brevi spazi sottratti alla boscaglia o alle pietraie disseminate lungo i versanti delle colline circostanti..  All’esterno del Kastron (tra ambienti utilizzati quali botteghe o come  fondachi)  erano e restano incastonati più torrazzi, posti di guardia che davano maggiore sicurezza agli insediati.

Non molto lontano dall’abitato v’era  il cosiddetto “pian di corte”[43], ampia spianata  che secondo le usanze longobarde veniva utilizzata quale campo di battaglia[44] e come luogo ove settimanalmente uomini a cavallo e a piedi si cimentavano in tornei e giostre nei pressi di un annoso noce.(la noce ‘lu passe)

Dopo il 668, ai Bizantini rimase solamente l’estremo lembo del Salento. Il Gargano ed il santuario dell’Angelo passarono sotto lo stretto controllo longobardo; l’episcopato sipontino fu annesso a quello beneventano. Romualdo diede quale giustificazione il fatto che il vescovo Barbato s’era alquanto adoprato per la conversione al Cristianesimo del suo popolo. Inoltre, grazie alle  preghiere di questo  sant’uomo, era stato scongiurato il saccheggio della città capoluogo del ducato da parte di Costante II. Per dare il crisma di legalità a tale decisione pare sia stata falsificata una bolla di papa Vitaliano[45]. La ratifica effettiva arriverà molto più tardi: nell’893, con papa Formoso.

Intanto dal 876 era iniziata la seconda byzantination con Basilio, primo imperatore della dinastìa macedone[46]. Nell’890 l’invasione  toccò Siponto e nell’891 lo stratega Simbaticio[47] prese Benevento. Ma l’occupazione delle terre non sempre era garanzia di reale possesso: v’erano i momentanei sconfinamenti longobardi e le continue scorrerie musulmane a turbare la stabilità. Va considerato anche il conflitto di ordine religioso tra il clero latino e quello greco.

Qualche anno dopo Ottone I riuscì ad allontanare definitivamente i Saraceni rifugiati sull’acrocoro nei pressi di Mattinata ed a Castelpagano[48]. L’intervento armato contro gli infedeli era  stato chiesto all’imperatore di Sassonia dal papa Giovanni XIII qualche anno prima. Ma pare che a debellare i Saraceni sia stata una banda di Slavi assoldati. Si sostiene che a compiere tale difficoltosa operazione siano stati Sueripolo ed i suoi uomini[49]. In compenso ebbero da Ottone I alcune terre del Gargano Nord:  si parla di Peschici e Vico.

Qualche storico pensa che quest’ultima impresa sia mera invenzione del Sarnelli. Ma a noi poco importa se a sgominare la banda di musulmani o di facinorosi[50] presenti nel cuore del Gargano sia stato Ottone I o altri avventurieri sclaveni[51]. Ci basta sapere che la “terra delle lame” era protetta dall’imperatore di Sassonia. Questi, com’è risaputo,  aveva annullato  la legge sui feudi ed usava conferire a Vescovi ed Abati l’autorità  civile  e  militare sui territori conquistati. La “cortem de laniense o de lamense[52], sorta intorno alla cappella di San Giovanni in Lamis, fu assegnata all’abbazia di Santa Sofia, come s’appura da un Precetto dell’imperatore sassone conservato nell’Archivio di Benevento. D’altronde non ci poteva essere differente attribuzione: l’arcivescovo di Benevento Landolfo, al tempo, aveva giurisdizione spirituale e soprattutto temporale sull’Alta Puglia e c’era tutto l’interesse ad avere una comunità religiosa filocampana sul Gargano. Le movimentate vicende belliche che caratterizzarono l’intero X secolo, le rivolte di città e paesi consigliavano di avere teste di ponte in ogni dove.

Nel 998 giunse a Bari quale Catapano il protospatario Gregorio Tarcaniota che mise in atto una energica repressione contro personaggi e comunità ostili all’impero d’Oriente ed ai suoi rappresentanti. Questi, con varie fortificazioni,  creò una cortina a nord-ovest del Gargano: volle quasi dar vita ad una netta linea demarcante tra la Puglia ed i possedimenti più esterni del principato beneventano. Non v’è documento che provi l’esistenza di rapporti tra i nostri abati  ed il Tarcaniota mentre nel 1006 il catapano Alessio Xiphias elargì terre alla badìa di San Giovanni de Lama, forse per orientare lo sguardo e la simpatìa dei Benedettini quivi residenti verso Levante. Seguì nel 1008 Giovanni de Curcua, catapano che rinnovò al monastero le concessioni fatte dal suo predecessore. Risulta logico che i monaci della badìa alle falde di Monte Celano mal tollerassero  la dipendenza dall’Archidiocesi beneventana alla quale invece erano legati i religiosi di stanza a San Giovanni in Lamis. Penso che questi ultimi, per evitare confusioni dovute all’omonimìa  dedicarono l’ecclesia tra le lame a S. Marci.[53],  vescovo molto venerato a Benevento[54]e dintorni. Di conseguenza, San Giovanni in Lamis diventò San Marco in Lamis.  Il nuovo culto  forse giustifica i paramenti vescovili che veste il nostro Santo Patrono quando viene portato in processione il 25 aprile.

La chiesa extra moenia verrà abbandonata dai religiosi dipendenti da Santa Sofia con la morte di Landolfo VI nel 1077, data che segna anche la fine del ducato di Benevento. Da allora l’“in Lamis” ed il “de Lama” presero a confondersi e a fondersi.

A provare quant’io sino ad ora ho affermato  v’è presso l’Archivio Storico Provinciale di Benevento un Precetto di Ottone II  che conferma quanto assegnato dal suo genitore  all’abbazia di S. Sofia. Tra tante terre ricorre anche la “corte de Lamense” o “colte de Laniense” o, meglio, “corte de Ianiense”.  Presso l’anzidetto Archivio  v’è  anche  una  pergamena  del  1167 con la quale  si  ordina la restituzione di terre “in locum qui dicitur Francisca” da parte della badìa di S. Giovanni in Lamis a quella di S. Sofia di Benevento[55].  Il documento, davvero originale, risulta sottoscritto dal papa Alessandro III.

Aiuta poco la lettura del “quadretto” che adorna la parte più a sinistra della facciata in quanto l’esatta identificazione del personaggio è posta a rischio dallo

      fig. 8  

stato  di conservazione  della rappresentazione. Sicuramente si tratta di una figura imperiale in quanto la destra stringe il nartex, tipico bastone del monarca. La mano sinistra accoglie il globo crucifero (fig. 8). Se la testa fosse coronata a fascia larga si potrebbe pensare ad uno di quei  basileus  che regnarono intorno alla fine del primo Millennio: a Romano II (fig. 9), ad esempio. Ma nel nostro caso si tratta di

           

fig. 9

 

una vera e propria corona imperiale. Se come dato per la identificazione teniamo in conto la fluente barba a pizzo, questa rappresentazione ci sembra piuttosto vicina alle immagini di Ottone I (figg. 11 e 12), il re di Sassonia e imperatore del Sacro Romano Impero di cui si è detto, impegnato in Puglia  dal 963 al 970. Ma non si rileva una scritta o una sigla che possa suffragare tale ipotesi

      

fig. 10                                                                                                   fig. 11

 

Nella parte centrale del riquadro (fig. 12) è presente in alto una losanga scandita da una croce doppia. Sotto, invece,  sono riprodotte in successione quattro mezzelune crescenti.  Si potrebbe pensare  ad una immagine ispirata a concetti della teologìa astrale (luogo sacro  come paese dei morti, come ricettacolo rigeneratore delle anime)[56]. Potrebbe anche essere un riferimento al culto mariano.

 


fig. 12

Infine, ricorre l’Agnus Dei (fig. 13) proposto ritto sulle zampe e con la testa rivolta all’indietro, verso destra,  “per  osservare la croce di gloria che gli campeggia sul dorso”[57].

fig. 13

Sulla  cantonata   destra dell’Angiporto  S. Antonio  abate ricorre  un leone marciano (fig. 14) che certamente invoca una spiegazione. Forse questa è l’unica insegna resistente che ricorda la funzione originale che aveva nel ‘500 l’antico fabbricato “a scatolone”  che  affiancava  la chiesa: era l’antica  sede  

    fig. 14

dell’Universitas. Tanto  assicura  il  Fraccacreta che ricorda anche l’esistenza in questo luogo di ambienti riservati al Regio Giudice per amministrare la giustizia.  L’illustre storico di San Severo così recita: “ Lì è il palazzo del R. Giudice, e Municipale con  lapide Jus Civici sull’agro di detta Badia”.

Attualmente i lastroni incisi che riguardano la concessione di immunità e franchigie agli abitanti di San Marco in Lamis  sono murati al primo  piano di Palazzo Badiale, nella parete opposta dell’antica sala delle udienze. Quest’ambiente, ridotto nelle dimensioni,  ora ospita il Sindaco.

Tornando, certamente la sede del Municipio e del Regio Giudice nei pressi della cappella di S. Antonio abate sostituì  il torrazzo (fig. 3), di  tre  piani, alquanto  buio, ove un tempo erano gli uffici ed i magazzini dell’Universitàs. Tale informazione si ricava sempre dal già citato documento contenuto nel fascicolo che accoglie gli Statuti del 1360 e del 1490, i Regolamenti delle Arti e dei Mestieri. Il manoscritto descrive sia l’antica cappella di S. Antonio abate, sia la torre del castello affiancata al consacrato. Quivi erano custoditi le carte, i registri, le misure di lunghezza,  di peso e di capacità utili per omologare quelle dei commercianti. Al primo piano v’erano conservate sementi e vettovaglie; mentre il secondo piano, illuminato solamente da una feritoia, era vuoto. Aveva dato asilo in precedenza ai “discalceati”, monaci che in seguito si trasferiranno a Stignano.

Ma ora occorre spiegare quando e perché il leone marciano divenne stemma del nostro paese; dire di possibili  accordi commerciali intercorrenti tra i Sammarchesi ed i Veneziani, visto che la zampa sinistra poggiata sul libro aperto rispecchia le condizioni di pace con la Serenissima.

Il leone alato apparve  sui  vessilli  della città lagunare non prima del 1260 e soltanto più appresso fu esportato in città e paesi (figg.15 e 16)   legati in un certo qual

  

fig.15                                                                                                                                 fig. 16

modo alla politica del doge. Forse a favorire i rapporti di commercio tra San Marco in Lamis e Venezia fu l’arcivescovo Matteo di Siponto, che dal 1327[58] ebbe San Giovanni de Lama o in Lamis in commenda. La Serenissima aveva bisogno di legname e qui da noi ce n’era fino alla “Foresta di Monte Granaro”. Sulle nostre colline, poi, gli ovini da sempre hanno brucato erba gentile ed ogni anno, puntualmente, hanno gratificato i pastori cedendo alla tosa lane di buona qualità che già ai tempi di Strabone erano fruttuosi prodotti di mercato. Inoltre nello zibaldone che accoglie documenti relativi alla Dogana della Mena delle Pecore[59] si legge che da San Marco in Lamis tanti sacchi contenenti frutta secca e fichi secchi, cereali e legumi  raggiungevano a dorso di mulo il porto di Manfredonia[60] che spesso ospitava natanti battenti bandiera contraddistinta dalla presenza del leone marciano. L’intero Adriatico veniva indicato sulle carte come Golfo di Venezia per sottolineare la supremazia che la Serenissima aveva da tempo sulle coste lambite da questo mare (fig. 17).

     fig. 17

Col tempo il felino dalla folta criniera fu posto sui documenti quale simbolo dell’UNIVERSITAS e S. Marciano o S. Marco vescovo fu confuso pian piano con l’omonimo Evangelista, volutamente o involontariamente.  Di tale operazione resta solamente la traccia nel culto.

Note
[1]    Così  è  definito  questo  documento  lapideo  medievale   in  uno  antico scritto  intitolato “CAPPELLA  DI SANTO ANTONIO  ABATE  E  TORRE  DEL  CASTELLO  DELLA TERRA DI SANTO MARCI IN LAMIS”. Si  conserva,  unitamente   agli  STATUTI DELL’UNIVERSITAS  nell’Archivio  Comunale,  trasferito da  qualche  anno  in  Biblioteca.  Il  ritrovamento è dovuto alla paziente opera di ricerca del compianto Gabriele Tardio.
Cfr.: TARDIO G., Gli Statuti medievali dell’Universitas di San Marco in Lamis, San Marco in Lamis 2005, pp. 21 e 22.
[2]   Bella questa voce del vernacolo utilizzata per indicare il sisma.
[3]  CHECCHIA DE AMBROSIO G., RICORDI STORICI DI CAPITANATA, San Severo1987, p. 431.
[4]   Cfr.: TARDIO G., LA CHIESA DI SAN MARCO IN LAMIS DAL MEDIOEVO ALLA METÀ DEL XVII SEC., San Giovanni Rotondo 2000, pp. 20 e 68.
[5]   BARGELLINI P., Mille Santi del giorno, Bologna 1983, p. 231.
[6]   Su certe vecchie carte  ricorre  Sancto Marci puntiscritto.  Nel Medioevo cosi  venivano  eliminati alcuni suffissi che potevano richiamare il culto di Giano.
Cfr. CAPPELLI A., LEXICON ABBREVIATURARUM, Milano 1979, p. 468.
[7]   GIULIANI L., Storia Statistica sulle vicende e condizioni della città di San Marco in Lamis Bari 1846, p. 6.
GUIDA A., SAN MARCO IN LAMIS terra di antichi santuari, San Marco in Lamis 2014, pp. 10 / 14.
[8]   Il termine latino “lucus”  indicava l’antico “luogo sacro”.
[9]   BOZZA  F., L’antistoria nel Medio Biferno, Campobasso, 2007, p. 13
[
10]   Insediamento abitativo arcaico composto da poche case di pietra raggruppate.
[11]   Cfr.: GENTILE G. A., GLI ANTICHI POPOLI DELLA DAUNIA, Foggia 1998; p. 19.
GUIDA A., SACRA APULIAE VETERIS, in ETNOSTORIA GARGANICA, Sannicandro Garganico 2010, A. XII, n° 2, p. 10.
[12]   Gli antichi nuclei urbani erano  delimitati da spesse mura  erette anche con grandissimi  macigni.
[13]   PAIS E., STORIA DELL’ITALIA ANTICA, Trento 1988, Vol. I, p. 60.
[14]   Potrebbe essere visto che nel grottone di Manaccore sono state ritrovate armi che richiamano tale cultura.
TUNZI SISTO A. M., PESCHICI: GROTTONE DI MANACCORE, in PROFILI DELLA DAUNIA ANTICA. IL GARGANO,   Foggia 1999, T. II, pp. 67 / 70
[15]    Pare che l’eponimo sia stato Aplù o Apulunas, un capostipite poi divinizzato. Come in altri casi, nel tempo a questo culto indigeno ne venne soprapposto un altro, quello di Apollo.
[16]    Se a “Lucera”  diamo radici etrusche, il toponimo equivale a “bosco di Cerere” o “ bosco di  Era” ( TRINCUCCI  G., LUCERA, Lucera 1981, p. 21). Di logica conseguenza i Lucani potrebbero essere gli abitatori del “bosco di Ani” o “bosco di Giano”.
[17]    PLINIO, N. H., 5, 15 (11), 102 – 103 -104- 105.
[18]    Sono quattro serie, ciascuna delle quali in ordine alfabetico.
[19]  GUIDA A., SACRA APULIAE VETERIS, in ETNOSTORIA GARGANICA, A. XII , n°2,  San Nicandro G.co 2010;  p. 10.
[20]  GRILLI A., I geografi antichi sulla Daunia, in LA CIVILTA’  DEI DAUNI NEL QUADRO DEL MONDO ITALICO, Atti del XIII  Convegno di Studi Etruschi e Italici, Manfredonia 21 – 27 Giugno 1980, Firenze 1984, p. 91.
[21]  “Asclepio, si diceva,  rendeva  visita ai  pellegrini che si recavano presso di lui mentre essi dormivano; a seconda dei casi , egli prescriveva loro la cura attraverso un sogno, o li guariva seduta stante  operando  direttamente o  attraverso un serpente dal quale si faceva scortare.”
VIAN F., La sede degli oracoli; in AA.VV., LE RELIGIONI DEL MONDO CLASSICO, Cles 1987, p. 85.
[22]   GUIDA A., ANGELI E SANTI, DEI E SEMIDEI NELLA GROTTA  DI VARANO, San Marco in Lamis, 2010; pp. 27, 28, 29.
[23]  Lampe era l’antica Argos Yppon, poi Arpos.
Cfr.: GUIDA A., Storia di Arpi, in IL GARGANO NUOVO, A. XX, n° 4, 4 giugno1994, p. 3.
[24]  Secondo S. A. Grifa questo arcaico sito sorse ai piedi di monte Castellano-Crocicchia.
Cfr.:  GRIFA  S. A., San Giovanni Rotondo  I SEGNI DELLA MEMORIA, San Giovanni Rotondo 1996, p. 10.
[25]  Celano = coelum Jani (cielo di Giano).
Cfr.: SOCCIO P. – NARDELLA T., Stignano, Isola del Gran Sasso 1991; p. 5.
[26]  GIULIANI L., Storia Statistica sulle vicende e condizioni della città di S. Marco in Lamis, Bari 1846, p. 6.
[27]  Dodona era un insediamento grande come Arpi. Sorgeva nei pressi di Cerignola.
Cfr.: SCHMEDT G., Contributo della fotointerpretazione alla ricostruzione  geografico-topografica  degli  insediamenti antichi , Firenze 1984, p. 5;
GUIDA A., SAN MARCO IN LAMIS terra di antichi santuari, cit.; pp. 24, 25, 26.
[28]   I primi centri cerimoniali pagani erano sulle vette dei monti  in quanto luoghi più prossimi al cielo e , quindi, alla divinità.  In seguito, il Giudaismo  ed  il Cristianesimo primitivo, interpretando  Isaia (XL, 4), optarono  per  consacrati alle pendici delle alture.
Cfr.: CHEVALIER J. – GHEERBRANT A., Dizionario dei simboli, Milano 1986, T. II, p. 106.
[29]  Abbondanti frusti di terracotta  si raccolgono lungo i versanti delle colline che delimitano la conca di San  Marco in  Lamis.
[
30]  Cfr.: GUIDA A., Testimonianze garganiche di religiosità antica, in IL GARGANO NUOVO, Maggio 1997, p. 3
[31]   Giano  veniva invocato  con  gli epiteti  Agonius (quale dio di ogni principio);  Patuleius  (quale  dio  delle are all’aperto); Consivius (quale dio che favoriva la procreazione).
C
fr.: RAMORINO  F., MITOLOGIA CLASSICA, Milano 1981, pp. 100-103.
VACCAI  G., LE FESTE DI ROMA ANTICA, Roma 1986, p. 207.
[32]  Cfr.: GUIDA A., SAN MARCO IN LAMIS terra di antichi santuari, cit.; pp. 31, 32, 33.
[33]   CATTABIANI A., CALENDARIO, Cles (TN) 2003, p. 232.
[34]   Giovanni in ebraico è detto Jahohanan e nel Corano Yahya.
[35]  GUÉNON R., Simboli della Scienza sacra, Milano 1992, p. 214.
[36]  SARNELLI P., Cronologìa de Vescovi et Arcivescovi Sipontini, Manfredonia 1680, p. 59.
[37]  SEZNEC J., La sopravvivenza degli dei, Torino 1992, p. 41.
[38]  Giovanni; I,14.
[39]   Si ricorda il presbitero Marco  che, secondo una lettera di papa Gelasio, fu malmenato in fundo Luciano da  due suoi confratelli. Tra’altro questi ultimi già gli avevano sottratto i vasi sacri utili per dir Messa. Tali oggetti erano stati consegnati al conductor domus regiae, curatore degli interessi imperiali nei nostri luoghi.
LOWENFELDS S., Epistolae Pontificorum Romanorum Ineditae, Graz 1956, G. I, E. 3.[40]   Nel 642 orde di Slavi d’Illiria, con molte navi,  giunsero  al  Gargano per depredare. Posero il loro accampamento nei pressi di Siponto. Racconta Paolo Diacono (L. IV, cap. 44) che tutt’intorno  vi  scavarono  grosse buche presto occultate. Quando Aione (duca di Benevento) raggiunse l’area sipontina  col suo esercito  per ingaggiare battaglia,  incappò in una di quelle buche e vi trovò la morte per mano degli Slavi insieme a molti dei suoi sudditi.
[41]  Costante II raggiunse la Daunia nell’aprile del 663, assediò Siponto e la rase  al  suolo  dopo  averla  presa.  Salì  al santuario di San Michele,  lo  depredò e  distrusse  ogni cosa. Lo stesso fece in molti centri urbani  dell’Alta Puglia quali Eca, Erdonia, Lucera ed altri.
FONSECA C. D., I Longobardi, in STORIA DELLA PUGLIA, Bari 1979, Vol.  I, p. 150 [42]   Cfr.:SABATINI F.,  Riflessi  linguistici   della  dominazione  longobarda  nell’Italia  mediana e meridionale, in Atti Mem.  Colombaria, 28, 1963 – 1964; pp. 19 e ss.
[43]   Cfr.: CAGIANO de AZEVEDO M.,Problemi archeologici dei Longobardi in Puglia e Lucania, in PUGLIA PALEOCRISTIANA II, Galatina 1974, p. 5.
[44]   I Longobardi preferivano combattere lontano dagli  abitati.
Cfr.: CAGIANO de AZEVEDO M.,  PROBLEMI ARCHEOLOGICI DEI LONGOBARDI IN PUGLIA E LUCANIA, in  PUGLIA  PALEOCRISTIANA II, Galatina 1974, p. 5.
[45]   Cfr.: GAY G., L’ITALIA MERIDIONALE E L’IMPERO BIZANTINO, Firenze 1917, p. 185.
[46]   La dinastìa macedone ebbe inizio con Basilio I nell’867 fino ad arrivare a Michele VI  Stratiotico (1057). Tra imperatori e reggenti, si susseguirono ben 17 governanti.
[47]   Protospatario imperiale bizantino, ossia generale
[48]   GIANNONE P., Istoria Civile del Regno di Napoli, Vol. VII, Cap. IV, Milano 1970,  p.179
FIORENTINO F., Saraceni, Slavi e Turchi dal Levante al Gargano, in A. S. P., A. XXXIX, Fasc. LIV, Bari 1986, p. 348. DI PERNA  G. – IACULANO – L. – VIOLANO M., CASTELPAGANO. Studi e ricerche, Foggia 2001, p. 37.
[49]   SARNELLI P., CRONOLOGIA DE’ VESCOVI …, cit., p.111. DE GRAZIA M., MEMORIE STORICHE DI RODI GARGANICO, Rodi Garganico 1983, pp. 22 e 23.
[50]   Per N. CILENTO si trattava “di bande  autonome o di truppe mercenarie ostili esse stesse tra loro per dissidi politici  e religiosi; hanno provenienza diversa e professano confessioni scismatiche diverse.”
Cfr.: CILENTO N., I  Saraceni  nell’Italia  Meridionale  nei  secoli  IX  e  X,  in LE ORIGINI  DELLA  SIGNORIA CAPUANA, Roma 1966, p. 210
[51]   “Dalla fine del X sino a buona parte dell’XI, l’Adriatico fu un lago bizantino, appartenendo le due sponde al  basileus,  per cui gli Slavi nel Gargano erano come di casa: venivano restavano e  se ne  andavano tranquillamente. Tanto  si    legge in  “Antichi abitati e necropoli del Gargano” di R. BATTAGLIA (p. 56).
[52]   Così è indicato il modesto nucleo urbano (in seguito San Marco in  Lamis) nell’Atto di conferma rilasciato  da Ottone II di Sassonia a Gregorio, abate di S. Sofia di Benevento, nell’anno 972.
Cfr.: GIULIANI L., L’insigne abbazia di San Giovanni in Lamis …, Foggia 2012, p. 510.
[53]  Spesso il punto nella brachigrafia medievale serviva a celare ogni finale di parola che riportasse alla mente divinità pagane.
[54]  S. Marciano o Marco, vescovo, era alquanto venerato nel Beneventano soprattutto dall’839, anno in cui il corpo del Santo  venne  traslato da  Frigento per volere  del  principe  Sicardo. Dal vescovo Orso venne  collocato sotto l’altare maggiore della Cattedrale di Benevento intestata all’Assunta. In seguito le reliquie furono portate a Monte Vergine.
Cfr.: CIAMPO F., Elogio Istorico di S. Marciano, Napoli 1837, pp. 7 e 11.
[55]  MANDUZIO G., Il Monastero di S. Giovanni in Lamis (sec. XI-XIV), San Marco in Lamis s. d., p. 49.
[56]  CIRLOT J. E., Dizionario dei simboli, Milano 2002, p. 299.
[57]   BEIGBEDER  O., Lessico dei simboli medievali, Milano 1994, p. 30.
[58]  MANDUZIO G., Il Monastero di San Giovanni in Lamis,  San Marco in Lamis, s. d., pp. 190 e 191.
[59]  ARCHIVIO DI STATO-FOGGIA, Dogana della Mena delle Pecore, I Serie F. 18, ff. 395/400.
[60]  Manfredonia, al tempo, era uno dei più importanti porti che si affacciano sull’Adriarico.  Aveva perfino  un  cantiere navale.
Cfr.:  RIVERA MAGOS V., La chiave di tutta la Puglia, in STORIA DI MANFREDONIA, Vol. I, Bari 2008; pp. 163 –196.

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